Con questo racconto si apre il “Ciclo degli invisibili”, dedicato a personaggi ai margini della società, delle regole e delle convenzioni.
«No fazzoletti.»
Era a Zagabria da un giorno solo. Appena arrivata in città respirò ancora nell’aria l’odore della guerra. Caterina veniva dall’Italia, era partita come volontaria. L’avevano assegnata a un orfanotrofio speciale, nella campagna poco fuori la città. Lo raggiunse e il suo contatto, che l’aveva accompagnata, la affidò a una donna croata. Goga l’aveva accolta con quell’unica frase in italiano. Cosa aveva voluto dirle?
Damir spuntò all’improvviso. Le ruote della carrozzina quasi le schiacciarono i piedi. Fissò il moncherino di gamba attraversato da valli carnose e si voltò per nascondere il suo orrore. Goga rimproverò Damir con una fitta raffica di parole incomprensibili, poi prese sottobraccio Caterina e insieme proseguirono verso la “Casetta tre”. Lì Goga era la “zia” di sedici bambini. Una mamma in affitto a duecento marchi al mese.
«Vieni» le disse la croata.
Non ebbe scampo.
«Mate.» Goga non disse altro, non ce n’era bisogno. Una granata gli aveva strappato le gambe, mentre giocava in una strada di Tuzla. Aveva otto anni.
«Josip, da Glina.»
Come faccio? pensò disperata Caterina. Voleva stringergli la mano, ma non le aveva più, volate via chissà dove insieme alle braccia.
«Qui piccoli» la “zia” completò le presentazioni.
Mario la guardò con bellissimi occhi chiari. Era uno splendido bambino di tre anni e tre parole. Non una di più. Lo avevano trovato quasi in coma per l’alcol che la nonna gli aveva fatto bere perché non piangesse. Sua madre, a sedici anni e con troppi uomini, aveva altro da fare. Branca i genitori li aveva avuti fin troppo vicini. Era al centro solo da pochi giorni, non aveva fatto a tempo ad assorbire i lividi sul viso.
Caterina si sentì svenire. Seguì Goga come un automa in quel labirinto di pareti bianche e finestroni verdi. Quando la porta della sua nuova camera si chiuse alle sue spalle, Caterina cedette e pianse.

Perché niente fazzoletti? Caterina si tormentò con quella domanda. In cuor suo si pentì di aver voluto fare la volontaria nella guerra della ex Jugoslavia. Era appena arrivata e già voleva scacciare le immagini dei bambini e dei ragazzi che schiamazzavano al piano di sotto. Non ce la faccio! si ripeté attonita davanti al proprio ribrezzo.
«Da, da tu fare» le disse Goga più tardi, mentre per cena si spalmava sul pane un formaggio mollo, regalo di chissà quale nazione. «No fazzoletti. Tua pietà no serve. Tu insegnare vivere soli. Loro volere amore, tu non per tutti. No piangere, no fazzoletti.»
Caterina ogni sera si buttava sfinita sul letto. In quel momento ripensava alle regole di Goga. Erano diventate una sorta di preghiera serale, per dare un senso alla giornata che finisce. Ogni nuova mattina, Caterina si accorse che le era più facile guardare le cicatrici sul mozzicone di gamba di Damir, o dare una pacca sulle spalle senza braccia di Josip, o farsi rincorrere da Meho, che il ghiribizzo imprevedibile delle schegge aveva lasciato senza la gamba destra e il braccio sinistro. Eccolo Meho Selinovic, diciassette anni, da Velika Kladuša, un artista della sedia a rotelle, capace di volare lungo i gradini e ridere a crepapelle.
Dopo due mesi di lavoro volontario, Caterina scoprì finalmente il segreto della saggezza di “zia” Goga: «Loro no piangere, nikada.» Aveva ragione lei, loro non piangevano mai. A quelle parole, Caterina pensò d’istinto alla larga risata di Meho, mentre scappava smanacciando sulle ruote della carrozzina, con l’unica mano rimasta dopo che gliela aveva infilata sotto la gonna. No, da Meho proprio non se l’aspettava.
Da Damir, sì. Fin dal primo incontro, ai piedi della rampa, si era sentita penetrata da quell’infantile e rancorosa voglia di affetto. Con i giorni si trasformò in un oscuro desiderio. Damir arrivava sempre all’improvviso, aveva imparato a rintanarla in un angolo per rubarle un contatto. Forse aveva sbagliato lei la prima volta. L’aveva lasciato fare, in quei giorni aveva ancora in tasca il fazzoletto.
«Ja sam hrabra!» sì era coraggioso Damir, si pavoneggiava ogni volta che la tastava. Sembrava non importargli di quel maledetto calcio che aveva tirato alla bomba inesplosa.
«Bomba muslimani, Mostar» le spiegò Goga, croata, cattolica e profuga, ma tutta intera.
«No fazzoletti.» Caterina si ripeté la litania, immobile sul letto, avvolta nella sera torrida. Le venne in mente Josip, quella volta che si ritrovarono da soli in ascensore. Non l’aveva toccata, e come avrebbe potuto? Ma non poté dimenticare il suo sguardo. Nessun uomo le aveva mostrato una passione tanto intensa. Caterina si girò sul letto, accaldata dall’afa, e pensò a quello spilungone di Josip. Senza un perché, la mano le scivolò in basso.
Danjiel mi fa paura. Fu sorpresa da quell’improvviso pensiero. Quando incrociò Danjiel per la prima volta, si domandò cosa ci facesse in quel centro. Era tutto intero, nessun segno di ferite, la testa che funzionava a meraviglia, un cuore generoso e un’incontenibile voglia di vivere. In “Casetta tre” Danjiel era diventato un po’ il padre. Il ragazzo non era neppure un profugo, veniva dalla capitale. Fu un mistero per Caterina.
«Tumore. Un anno poi muore, no famiglia.» La sentenza di Goga le piombò addosso insopportabile.
Danjiel la guardava spesso, con certe occhiate oblique, rubate alle tante mansioni con cui riempiva le giornate. Non aveva mai osato avvicinarsi a lei. Caterina pensò a lui nell’aria immobile e calda della stanza mentre si sfiorò il seno. Perché Danjiel non ci aveva mai provato? Lui che poteva e aveva così poco tempo?

I riti vanno rispettati, a qualunque costo. Anche quando le “zie” delle altre casette sono con i bambini al mare e Goga non può lasciare i piccoli. Mario aveva la febbre, Branca non si staccava dalla “zia” e Ivanka aspettava il fisioterapista. Lo sguardo di Goga a Caterina fu eloquente.
«No piscina, oggi no.»
«Posso andare io» Caterina si propose entusiasta.
Lo sguardo obliquo della croata non fu per niente rassicurante.
«Non è la prima volta. Ti prego» instette la ragazza italiana.
Goga chiuse l’argomento con un’alzata di spalle. Caterina ormai aveva imparato che il rito del bagno giornaliero in piscina non poteva conoscere eccezioni. Per la prima volta lo affrontò da sola. La processione fu aperta dal funambolo Meho. A ogni svolta roteò la carrozzina, facendo infuriare Damir che cercò d’acchiapparlo. Danjiel, come sempre, rimase vicino a Josip. Era diventato le sue braccia e qualcosa di più. Chiuse la fila Franjo, il più piccolo del gruppo, con i suoi dieci anni appesantiti dalla schizofrenia. I ragazzi urlarono a squarciagola eccitati.
«Fate silenzio!» urlò Caterina.
Nessuno le dette retta, neppure il piccolo Franjo, tutto solo nel suo mondo. Arrivarono in piscina. Danjiel aiutò tutti, come sempre. Si mosse con destrezza, passando da Damir a Meho, che intanto si era messo in piedi, ondeggiando sull’unica gamba. Josip aspettò il suo turno, fidandosi solo dell’amico. Franjo si lanciò in acqua e nel trambusto né Danjiel, né Caterina si accorsero che era ancora vestito.
«Vieni qui, come fai a nuotare con quel peso addosso?»
Caterina si tuffò e raggiunse il bambino. Gli sfilò i vestiti nell’acqua. Franjo sorrise al solletico. Gli occhi di Caterina incrociarono lo sguardo di Danjiel. Si era tuffato anche lui, pronto a dare una mano. Era immerso fino al naso e la fissò come non aveva mai avuto il coraggio di fare. Caterina nuotò fino al bordo della piscina. Mentre risalì, sentì lo sguardo di Danjiel che le percorse il corpo. Appoggiò a terra gli stracci inzuppati di Franjo, si voltò sapendo di offrirsi al desiderio del ragazzo. Cercò nel suo giovane repertorio l’espressione della madre paziente che non vuole sgridare il bambino, ma non per questo cede al capriccio.
Ormai erano tutti in acqua e la fissarono con i loro sguardi penetranti. Nella piscina ci fu un silenzio irreale, i ragazzi galleggiarono in semicerchio davanti a lei. Lei restò immobile, incapace di una qualsiasi reazione, offrendo il suo corpo ai loro sguardi. Scese le scalette come un automa ed entrò anche lei in acqua. Si lasciò galleggiare. Caterina non si rese conto di cosa avesse fatto, era stralunata come un naufrago che ha perso di vista anche l’ultimo relitto della nave. Restò sola di fronte all’immensa solitudine dell’acqua. Fu un’illusione.
I ragazzi la circondarono. Danjiel le afferrò l’elastico del reggiseno, finché non lo strappò. Allora s’immerse e le sfilò il resto del costume. Damir le si aggrappò al seno, ultima scialuppa per una vita normale. Glielo strinse con la stessa foga con cui si era scagliato contro la bomba inesplosa. Meho perse il sorriso, mentre la toccava sottacqua. Josip mugolò impotente, odiò i compagni e il destino. Danjiel si avvicinò a Josip con uno sguardo di sfida. Gli mise in testa gli slip di Caterina, poi nuotò da lei. Si avventò su Caterina con la foga di uno squalo. La toccò e la penetrò e lei, impotente, lo lasciò fare. Sentì i colpi rapidi e convulsi, non provò alcun dolore, non provò niente.
All’improvviso l’acqua esplose, Josip scalciò Danjiel, con un furore disperato che lo rese invincibile. Caterina urlò. Il rimbombo della sua voce si franse sul soffitto, vibrò sulla vetrata, la attraversò e investì Zlatko. Il giardiniere entrò sbattendo la porta. I ragazzi cercarono scampo verso l’altro lato della vasca, solo Danjiel sfidò l’intruso.
Zlatko si sporse dal bordo della piscina con la mano tesa verso Caterina e lo sguardo furente rivolto verso Danjiel. Il ragazzo galleggiò immobile, ma non indietreggiò. Lei fu trascinata fuori dalla vasca e seguì docile il giardiniere.
«Dove mi porti?» gli chiese mentre camminava barcollando.
Lui non rispose, la trascinò nuda, attraversando il deserto dei corridoi, la fece entrare in una stanza. Zlatko chiuse la porta, spinse Caterina verso la doccia. La ragazza restò in piedi, immobile, senza un gesto, né una parola.
«Nema problema.»
L’uomo aprì e regolò l’acqua. Prese con dolcezza la ragazza e la spinse sotto la doccia calda. Caterina rimase immobile, il viso svuotato di ogni espressione. Il giardiniere aspettò che l’acqua scorresse a lungo sul corpo di Caterina, poi l’accompagnò fuori dalla doccia, l’asciugò e l’adagiò sul letto. L’uomo restò immobile, in ascolto. Non sentì alcun rumore, né grida, né schiamazzi. Guardò Caterina distesa, il suo corpo giovane emanò una luce lattea. Zlatko sentì scosse nervose e onde di calore. Le sue mani vibrarono. Intorno c’era solo silenzio, pesante come l’aria afosa della stanza.
L’uomo le passò una mano davanti al viso e lei non reagì. Allora si avvicinò al letto, le sfiorò con leggerezza le braccia, poi le gambe. Trattenne il respiro, Caterina non fece alcuna resistenza. Si posò accanto a lei e iniziò ad accarezzarla, poi a toccarla. Non resistette, si abbassò i pantaloni, salì sopra di lei e la penetrò. Nel culmine dell’amplesso non riuscì a trattenersi e urlò.
Zlatko si maledisse. Caterina si mosse piano, emettendo fiochi sospiri. «Danjiel, Danjiel, Danjiel...» Quel nome scivolò sempre più fievole dalla sua bocca. La porta si aprì, sbattendo con un colpo secco contro la parete.
«Kopile!»
Zlatko rimase inebetito, trafitto dall’urlo. Zia Goga lo scaraventò a terra con una spinta poderosa, poi si gettò su Caterina come per proteggerla. Zlatko fuggì dalla stanza, con gli occhi sgranati dal terrore.
«Dove sono?» chiese smarrita la ragazza.
«Tu male, in piscina» le rispose amorevole la “zia”. «Tutto ok.»
Goga prese un asciugamano. Glielo passò sul collo, sul seno, via via sempre più giù fino alle gambe. Con un rapido movimento gliele divaricò e cancellò con l’asciugamano i segni del giardiniere. La ragazza si rimise lentamente in piedi, Goga la aiutò a infilarsi un camice.
«Ok?» le chiese.
«Sì, Goga.» Caterina aveva il viso pallido, gli occhi erano appesantiti da leggere occhiaie e le labbra erano sbiancate. Fece fatica a camminare diritta. Uscì dalla stanza, sorretta da Goga, infilarono uno dopo l’altro i corridoi di quel labirinto. Il naso le gocciolò e Goga le porse un fazzoletto. Caterina lo prese nella mano e lo fissò. Si voltò verso la “zia” e sorrise impacciata. Goga ricambiò con uno strano sorriso, era turbata.
«Quando torni Italia tu trovare me marito?»
Caterina si fermò e la fissò stupita.
«Ma non sei già sposata?»
«Zlatko no marito. Kopile, bastardo.»
“La piscina” ha ricevuto la menzione d’onore alla 10ª edizione del concorso “Prader Willi”, dedicato alla disabilità.
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