top of page

La Corte dei Cotissi

Immagine del redattore: Giada VenturinoGiada Venturino

Aggiornamento: 12 giu 2023


  • Devo entrare qui dentro? –

  • Sì, Maltese. –

  • In questa torre? –

  • Non sei obbligato, ma se ti fidi devi stare al gioco. È l’avventura. –

Questo racconto è una riedizione de “La Corte dei cotissi”, il cui testo originale è stato pubblicato nel catalogo “Alessandro Cadamuro. Poevetri – Poeglass” (2008). Un omaggio alle vetro-sculture dell’artista veneziano e al fascino esoterico di Corto Maltese. Le illustrazioni sono di Isaak Friedl, nate per un fumetto sul racconto.

La Corte dei Cotissi, illustrazione di Isaak Friedl
© Isaak Friedl

Era a Venezia sulle tracce di Corto Maltese. Un azzardo o forse un sogno. Se da ricordare o mai sognato, poco importava. Corto era l’avventura. Perché non basta una vita avventurosa. L’avventura non è mai abbastanza. Mai perfetta. Corto era l’ultima frontiera del sogno. Lui ce l’aveva fatta, ma la sua era una vita di carta. Romantica e irraggiungibile.

Si vestì con meticolosità. Pettinò i capelli. Si lavò i denti, aveva in bocca un gusto di metallo. Provò la faccia allo specchio, l’ultimo collaudo. Uscì. L’aria dell’aurora era opaca, la luce appena accennata. «Soggetti crudi, luce morbida.» Era l’unica sua sentenza di fotografo. «È la guerra.» Era l’unica sua sentenza di uomo.

La sua avventura era fotografare le guerre. Non erano né buone, né cattive. Restare vivo era l’unico confine. Non riuscì a trovare altro insegnamento dai ricordi. Fissò il vuoto e pensò alla guerra. Non era più cattiva delle malattie o di un terremoto. Basta restare vivi, appunto, e lui era vivo.

La Corte dei Cotissi, illustrazione di Isaak Friedl
© Isaak Friedl

Sbarcò a Murano che l’alba si era appena consumata. Non aveva una meta. Trovò solo il rumore dei suoi passi e l’aria salmastra. Mare di laguna, pensieri che fuggono. Era appena arrivato e già avrebbe voluto partire. Erano anni che voleva partire. Più partiva e più l’impulso si faceva impellente. Partire non bastava mai. Per andare bene, ogni partenza avrebbe dovuto contenere un’altra partenza. Invece era infettata dei germi del ritorno.

La laguna gli parve una lastra luminescente. Un po’ metallo, un po’ vetro. Chiuse gli occhi. S’immaginò in una casa sul mare. Era un altro suo sogno. Tirare le tende e spalancare le finestre appena sveglio. Passeggiare per le stanze, cogliendo le impercettibili variazioni di colore. Le pareti diventano fotogrammi, attimo dopo attimo cangianti. Le finestre si fanno specchio, ti specchi e appare il mare. Una fusione di argenti, sirene luminose di nuove partenze. Riaprì gli occhi e sospirò. La sua era una casa di pianura. Piccola gabbia di troppi pensieri. Inutile aprire le finestre. I pensieri ristagnano, non c’è la brezza marina a disperderli. Pensare è un’arte o una condanna. Occorre dominarne l’intima architettura. Guai a farsene dominare. Allora è meglio fuggire. Ciò che lui faceva da sempre.

Si guardò attorno, non vide nessuno, solo acqua e case. Aveva tempo e odiava la solitudine. Sentì un rumore. Qualcosa da scoprire. Si sentì rincuorato. Il rumore veniva da dietro un cancello semiaperto. Un lieve franare di ghiaino. Non resistette. Entrò a curiosare.

Si ritrovò in una corte addossata a un edificio, sembrava una vecchia officina. Un uomo stava accucciato nell’angolo del cortile. Era intento a rovistare in una montagnola di pietruzze colorate. L’uomo fu gentile. Lo salutò e tornò a scavare con le mani nel cumulo. Aveva i capelli raccolti in una coda, scarponi massicci e i vestiti lievemente sdruciti. Indossava un’aria stravagante e un curioso sguardo da bravo ragazzo. Ogni tanto gli rivolse qualche domanda.

«Da dove vieni, dove vai, che fai nella vita...»

Parlò a voce bassa, le parole separate da un intervallo né troppo lungo, né troppo corto. Il fotografo ascoltò la sua voce modulata, ebbe la tentazione di chiudere gli occhi e sognare, rispose per educazione.

«Sono un fotoreporter.»

«Mestiere affascinante... vero?»

Sapeva perfettamente cosa rispondere. Aveva analizzato mille volte il leggero brivido dello scatto. C’era qualcosa di empio nel fermare le cose. Ogni “clic” rubava il movimento e un po’ di vita se ne andava. Non si può sapere quanta vita ci sia nel mondo. Ruba oggi, ruba domani, prima o poi la vita si esaurirà. Non trovò le parole per ribattere. Qualcuno forse lo stava fotografando. Gli stava portando via un po’ di vita e non sai mai quanta te ne resti.

La Corte dei Cotissi, illustrazione di Isaak Friedl
© Isaak Friedl

«Problemi?» gli chiese lo sconosciuto, tenendo la mano a mezz’aria che stringeva un grosso pezzo di vetro verde.

­«Come?»

­«Qualche problema, amico?»

­­­«No, perché?»

­«Sembra che qualcuno ti abbia staccato la spina.»

«Pensavo...»

«Lasciami indovinare... sei preoccupato, si vede... tu stai scappando, ma non sai dove andare. Venezia non è il posto adatto, lasciatelo dire… sul serio, che ci fai qui?»

«Cerco l’avventura.»

«A Murano? In questa stagione? La tua agenzia di viaggio ti ha informato male!»

«Cerco i luoghi di Corto Maltese. Cerco la Venezia misteriosa ed esoterica.»

«Ah, il Sirat al Bunduqiyyah, la Corte sconta detta arcana... bel racconto, intrigante. Ho capito... sei un sofisticato illuso in cerca di risposte impossibili... auguri, amico!»

«E tu che fai, mister so-tutto-di-te?»

­«Cerco i pezzi di vetro scartati dai vetrai. Quelli grandi, come questo, li chiamano cotisso, ma a me interessano quelli piccoli. Sono bellissimi, li gettano perché non sanno guardarci dentro. Io li prendo e li faccio vivere.»

«Sei un artista?»

«Chi cercherebbe scarti di vetro? Un matto o un artista. E tu da che parte stai, predatore d’immagini?»

«Non sono matto. Corto Maltese è così per dire, ogni tanto bisogna pur tornare a sognare.»

«Esatto, amico, come cercare vetri colorati.»

Lo sconosciuto abbassò il braccio e posò il cotisso. Raccontò di sé, fissando la montagnola di vetri. Aveva cominciato da bambino. Dopo la scuola andava nella vetreria del padre. Passava tutti i pomeriggi a rovistare nei cotissi. Quelli dorati erano naturalmente i più preziosi. Anche quelli rossi, che dell’oro zecchino erano i figli prediletti. La maggior parte erano cenerentole opache, ma qualche volta appariva una principessa trasparente. Il bambino alzava il cotisso, tenuto tra le dita, e vi guardava attraverso.

«Vedevo un altro cortile, un’altra Murano, un’altra laguna, un altro mondo» disse alzando gli occhi sul fotografo. «Non era in fondo quel che faceva Corto Maltese? Cercava i posti segreti di Venezia dove una porta si apre su posti bellissimi e su altre storie.»

«Bravo mister so-tutto-di-te! Ci hai preso. Corto è una scusa, come un cotisso. L’importate è andare Altrove.»

Nel dire quelle parole, il fotografo s’immaginò il bambino che raccoglieva vetri tutti i pomeriggi. Alle spalle fu sicuro di sentire il fragore della fornace, acquattata proprio davanti alla laguna. Vetro nel vetro, porta magica che ferma il tempo. Anche l’oro è senza tempo. Per questo era un cotisso prezioso. L’artista, intanto, immerse di nuovo le mani nella montagnola lucente di colori barocchi.

«Dimmi una cosa... ti riesce mai di rubare un’emozione quando fotografi?»

«Qualche volta, ma fa male. È un po’ come strappare un pezzo d’anima.»

«Forse ho quello che ti manca.»

«Davvero? Cos’hai da offrirmi?»

«Non volevi l’avventura... Maltese?»

Lo sconosciuto si alzò e uscì dalla corte. Lui lo seguì. Percorsero calli strette e tortuose, il cielo divenne una minuscola striscia lontana. Lo seguì senza sapere dove lo portasse. L’uomo dei cotissi aprì una porta che dava su una piccola corte. La porta si chiuse alle loro spalle. Con pochi passi attraversarono la corte, l’artista aprì un portone scuro. Entrarono in una grande stanza. Il fotografo si trovò davanti una fabbrica ferrosa, forse un planetario oscuro, magari solo un magazzino congestionato o un museo surreale. Poteva essere qualsiasi cosa. O più semplicemente una Corte sconta.

«Benvenuto nel mio laboratorio alchemico!»

Un piccolo mondo, infinito nella moltitudine innumerabile di oggetti. Paradossale, come camminare in eterno sui bordi di una “O” e restare nello stesso punto dello spazio. Un mondo magico con tutto quel che serve per fuggire. Anche il tempo. Un tempo nevrotico, incalcolabile. Da quanto era entrato? Un mondo a sé, autonomo, autosufficiente, completo. Un cotisso trasparente, che lo sguardo di un bambino aveva liberato alla fantasia.

«Chi sei veramente?»

L’alchimista si sciolse i capelli sulle spalle e non parlò. Mosse solo gli occhi come se fosse l’altro a dovergli indicare la via. C’era un’aria stantia di incantesimo. Lastre di vetro, ferri scuri, lunghi, corti, pesanti, filiformi, la fornace incrostata, sportelli come bocche, manometri, tubi, pulsanti, bombole per la saldatura, cannelli, paranchi al soffitto, catene dondolanti, ganci, attrezzi sottili, massicci, a punta, spatolati, incrinati, vasetti di colore, pennelli, matite, carboncini, pastelli, polveri, terre, granulati, cartoni, ottoni, argenti, ori... La curiosità del fotografo dilatò il laboratorio, ad ogni passo si ingrandì, un antro oscuro di una miniera esigente. L’alchimista lo seguì, forse senza vedere. Aveva gli occhi di un bravo ragazzo e l’aria stravagante. Lo sguardo di un bambino.

«E questi cosa sono?»

«I miei mozziconi di sigaro.»

«Ti piace fumare, si vede.»

«Sono tracce. Memorie di quello che sono. Ogni mozzicone è un momento, pensa a quante cose stanno in un momento. Qui ogni oggetto è una traccia di vita, una parte di me.»

«Alchimista... a parte il giro turistico, cosa volevi offrirmi?»

«Un’avventura degna, Maltese... sei all’altezza?»

«E che ne so? Cosa dovrei fare?»

«Entrare in quella scultura.»

«Quale scultura?»

«Quella torre a piramide... non là, Maltese... lì, al centro, davanti al tuo naso!»

«Accidenti è bella grossa! E che mi succede lì dentro?»

«Non lo so, non posso dirtelo io... dipende da quello che crederai.»

La torre gli sembrò altissima. Una cuspide al centro del laboratorio. Come poteva non averla notata? Era solida, di ferro e vetro, dai molti riflessi guizzanti. Un acquario senza pesci, con lettere e segni arcani che galleggiavano come ferite sul vetro. Pagine senza foglio, scritte in verticale. Graffi rubati alla dura trasparenza. Li guardò e sentì nell’aria lo stridore del diamante che li aveva incisi. Rabbrividì alla lastra che si spezzava al taglio. Un tonfo sommesso e cupo, quasi una vita che esala l’ultimo respiro. Eppure, era solo vetro, inanimato, inorganico, un enigma chimico. Toccò la creatura. É suggestione, solo suggestione, pensò il fotografo. Non credeva all’alchimia, era un relitto di tempi morti. Come la magia. Suggestione, evocazione, persuasione... è questo. Nient’altro.

«Devo entrare lì dentro?»

«Sì, Maltese.»

«Ma come faccio a respirare?»

«Non avrai mai respirato meglio, è solo questione di fiducia. Non sei obbligato, ma se ti fidi devi stare al gioco. È l’avventura.»

«E se sei davvero matto? Cosa so di te? Cosa so di questo aggeggio?»

«Lascia stare, Maltese. Là fuori c’è la tua vita. Tornatene a Venezia, tornatene a casa. Vattene.»

La Corte dei Cotissi, illustrazione di Isaak Friedl
© Isaak Friedl

Accettò. In fondo la sua vita era una serie di domande senza risposte. Perché fotografava le guerre? Perché era a Venezia? Perché Corto Maltese? Perché l’avventura? Non c’erano ragioni. A parte un’altra domanda: perché no? Perché non avrebbe dovuto accettare il gioco dell’alchimista? Entrò nella pancia della scultura che si richiuse con un colpo secco.

Era dentro e respirava. Né ombre, né luci, un grigiore vuoto. Si tastò. Era vivo, intero, funzionante. Come era possibile quel grigio? La scultura all’esterno era di un limpido vetro trasparente. L’aveva tastata, osservata, annusata. Perché dentro era opaca? Cosa si era inventato l’alchimista? Suggestione, nient’altro che suggestione...

Tastò ancora. Vetro. Liscio e opalescente. Vetro da ogni lato. Chissà quale intruglio aveva usato l’alchimista? Esplorò la superficie liscia e fredda. Notò un segno. Inequivocabile. Labbra di donna. Il segno del rossetto. Le tracce di un bacio. Lo sfiorò.

Un lampo. Un viso. Una donna. Sparita! Riprovò. Ancora! Il viso si materializzò dal vetro. Gli sembrò uscire dalla superficie piatta, era vivo! Fu solo un attimo, poi più nulla. Si abbandonò alla curiosità. Appoggiò le sue labbra al rossetto sul vetro e scattò all’indietro. Aveva sentito il bacio! Il calore e l’umido delle labbra. La morbidezza carnosa. Provò ancora.

Dopo il bacio, il viso della donna galleggiò davanti a lui nella nebbia opalescente del vetro. Era bella, bionda, giovane. Gli occhi azzurri erano trasparenti come un cotisso. I capelli le si mossero appena, gli sembrarono lunghi fili d’oro zecchino. Lei tenne la bocca socchiusa. Intuì la sua lingua dietro i denti perfetti. Quarzi lucenti. Protese il viso verso di lui. Per baciarlo. Era erotica, irresistibile.

All’improvviso vide una mano accanto al viso della donna. Dita sottili di donna sfiorarono le lettere graffiate nel vetro, comparse dal nulla opaco. Un movimento lento, una carezza sensuale. Lui sentì quel tocco sulla sua pelle. Non osò muoversi, ma non resistette.

Allungò la mano e la toccò, la donna sparì. La sua pelle restò orfana della carezza. Fu preso da una vertigine. Un movimento ondulatorio, sempre più forte, profondo. Il moto divenne vorticoso, provò nausea. Così com’era cominciata, quella giostra sparì. Si ritrovò seduto sul fondo della torre di vetro. La vista ancora annebbiata. C’era luce, adesso, più luce. A poco a poco mise a fuoco.

La scultura era tornata trasparente. Vide una corte veneziana, un pozzo circolare su un lato, accanto a una scalinata. Distinse porte qua e là sulle facciate dei palazzi, chiuse da portoni di legno scuro, con i cardini in ferro. Dall’altro lato, vide lo slargo di una calle, da cui entrarono delle persone. La scena si compose pezzo dopo pezzo. Tutto intorno, riconobbe sculture circondate da piccole folle curiose. La gente girava attorno alle sculture, le commentava, le toccava. Era una mostra, il fotografo fu percorso dal brivido di farne parte. Due uomini si avvicinarono alla sua scultura. Notò la loro aria perplessa, per un attimo provò una feroce speranza.

«Che strana questa scultura.»

«Perché? È solo un’intelaiatura di ferro che sostiene lastre di vetro con strani segni incisi.»

«Sì, ma guarda che effetti! Sono straordinari, mai visto niente di simile... ma come fanno?»

«Ah, non lo so! Sarà qualche magia del computer. Oggi fanno qualunque cosa.»

«No, non può essere un computer, assolutamente no. Gli effetti cambiano in continuazione, vedi? Luci, pulsazioni, colori, movimento... Sembra una donna, si muove come se avesse una vita a sé... è inquietante!»

«Ma dai, è solo una scultura, niente di più.»

«Non vedi che sembra viva? Andiamocene, mi fa paura.»

«Ehi, voi! Mi sentite? Fatemi uscire... Ehi! Per la miseria, voglio uscire! Voi due! Sono prigioniero della scultura, non sono qui per mia volontà, sono stato ingannato... mi sentite? Chiamate aiuto, liberatemi!... Non andate via! Non lasciatemi qui dentro!»

Vide i due uomini allontanarsi. La corte a poco a poco tornò deserta. Perse il senso del tempo. Tutto divenne buio. Poteva essere la notte o un altro incantesimo dell’alchimista. Gli sembrò di essersi addormentato. Sentì un fastidio alla gola. Tornò in sé. Ricordò di aver urlato a ogni persona che si era avvicinata alla torre di vetro. Nessuno lo aveva badato, come se non lo avessero visto dimenarsi nella scultura trasparente.

Non provò fame, sete, stanchezza. Ebbe l’impressione che la struttura si fosse adattata perfettamente al suo corpo. Si sentì parte di essa. O forse era il contrario. La torre si stava fondendo con lui. Quasi la sentì respirare ai suoi respiri. Esitò. Era disperato e stava per fare una cosa disperata. Voleva ritrovare il segno del bacio sul vetro. Voleva rivedere il viso della ragazza. Voleva sentire il suo bacio. Poteva essere la chiave per capire… per uscire… Mosse la testa, la fermò vicinissima al vetro. Vi posò le labbra. Baciò il vetro. Ancora. Ancora e ancora.

A ogni bacio fu trafitto. Furono labbra nuove a baciarlo e nuovi volti. Donne, ragazze, uomini, persino un bambino. Sentì le loro labbra sulle sue, persino l’odore della loro pelle. I volti si illuminarono e sparirono nel buio. Provò un senso di pace. Non era solo. Si addormentò sfinito.

«Maltese... Maltese!»

«Eh?... Chi è?»

Vide la faccia dell’alchimista. Si ritrovò seduto su una sedia, appena fuori dalla torre di vetro. La scultura era nello stesso posto, sembrava non si fosse mai mossa dal laboratorio alchemico. L’alchimista gli portò un caffé caldo e profumato. Gli fece bene. Si guardò attorno. Tutto era esattamente come prima. Anche il maledetto vaso dei mozziconi di sigaro. L’alchimista si accorse che li stava fissando.

«C’è un mozzicone in più, mi ricorderà Maltese.»

«Cosa mi è successo? Cosa mi hai fatto?»

«Non lo so, amico. Sono cose tue.».

«Senti, apprendista stregone, non pigliarmi per il culo! Mi hai portato in questo laboratorio di Frankenstein per fare chissà quale esperimento... ma cosa volevi fare? Trasformarmi in uno dei tuoi giocattoli di vetro?»

«Hai male da qualche parte? Sei ferito?»

«No… ma che c’entra? Voglio sapere cosa mi hai fatto!»

«Diciamo che ti ho fatto una fotografia.»

«Tu sei fuori!»

«Dimmi, reporter, cosa sai delle anime che rubi sulla pellicola? Parole tue, Maltese...»

«Mister so-tutto-di-te, mi devi una spiegazione!»

«Ah, Maltese… eppure è così semplice. Il vetro è un’impronta. Ci scrivo la vita, proprio come tu fai con la pellicola. Non sono entrambi trasparenti? Anche il tuo corpo è un’impronta. Ogni giorno la vita ci scrive un segno. Non ho fatto altro che fondere i miei ricordi con i tuoi. Sei entrato nella mia scultura ed è diventata qualcosa di diverso, di irripetibile. È successo la stessa cosa con te. Non sei più quello di prima, hai rubato una parte di me. Quello che sei diventato è affar tuo. Facciamo una foto ricordo?»

«Smettila! Non ho sognato, quelle cose erano vere, come hai fatto?»

­«Credi nella magia? Certo che ci credi, altrimenti non inseguivi Corto Maltese. Devi sapere che i luoghi magici di Venezia sono quattro, non tre come ti ha insegnato Corto. C’è un altro posto, con un’altra porta, che ti fa andare per sempre in posti bellissimi e in altre storie.»

«Scommetto che è il tuo laboratorio, vero alchimista?»

«No, Maltese, ti sbagli.»

«E allora dov’è? Dove mi hai portato?»

«Io non ti ho portato da nessuna parte, è il destino che te l’ha fatto trovare.»

«Alchimista, sono stanco dei tuoi giochi. Dimmi dov’è!»

«Non ci arrivi? È così facile... è la Corte dei cotissi

Comments


bottom of page