
«Scusi, il treno arriva al binario uno o due?» Maleducato, fa finta di niente. Mi conosce, ci incontriamo in panificio su in paese. Compra sempre panini piccoli e morbidi. Non importa, il treno arriverà e annunceranno il binario. Me lo voglio proprio godere il mio treno. Farò finta che sia vuoto. È così che mi piace la mia vita. Vuota. Sono un tipo strano, così almeno mi considerano gli altri. Proprio per questo sparisco. Mi sono fatto invisibile. Ho imparato così bene che ormai più nessuno mi nota.
La cosa ha i suoi vantaggi. Per esempio, mi mette al riparo da visite di cortesia o da inviti a cena, mi permette di fare lunghe passeggiate senza “buongiorno come sta?” All’inizio pensavo che le mie abitudini schive avrebbero alimentato chiacchiere, ma mi sono sbagliato. La mia invisibilità si è tanto perfezionata che per tutti, semplicemente, non esisto.
Traduco libri, un mestiere che posso tranquillamente fare chiuso in casa. Tutto quello di cui ho bisogno mi arriva via web, qualche volta per posta. Con le persone in carne e ossa non so mai cosa dire. Nascosto dietro la tastiera è diverso. Nessuno mi vede e io non devo sopportare la loro faccia quando mi scoprono “strano”.
Oggi ho deciso di andare in città. Non ho niente di particolare da fare, nessuno che mi aspetti. Dicono che in città i rapporti siano più difficili. Forse, ma non per me. In un piccolo paese una solitudine è l’anomalia, meglio ignorarla. In una metropoli, invece, si dice ci siano tante solitudini. Ma nessuno ci fa caso, non danno scandalo. Ecco il mio treno.
Sono arrivato. Ho una fascinazione per la città. È per via della ridondanza. Entri in biblioteca e ci sono più libri di quanto uno possa leggere in non so quante vite. Ci sono più negozi di quanto possa permettersi il tuo portafoglio. All’apparenza c’è più gente di quanto si possa sopportare, ma sono tutti fantasmi, s’incrociano senza vedersi. L’ho sempre trovato affascinante, per questo ogni tanto vengo in città.
Mi hanno investito. Forse ero distratto… ho attraversato e quei due ragazzi in motoretta mi hanno preso qui, sul femore. Sono caduto, che botta! Loro sono rimasti in sella e se la sono svignata. Ottimo. Sono seduto a terra e non riesco a muovermi. Bloccato e senza telefono. Non ce l’ho, non mi serviva. Almeno fino a ora.
Sono passati in tanti, nessuno che si sia fermato. Mi hanno visto seduto a terra, la schiena appoggiata al muro. Li ho fissati e loro hanno sviato lo sguardo. Si sono voltati dall’altra parte. Li capisco, non hanno voluto impicciarsi, non si sa mai chi possa essere quello sconosciuto steso a terra. Non posso biasimarli, cosa avrei fatto al loro posto?
Non so chi sia. Lei si è fermata. Mi ha aiutato a salire sul suo carrettino e quando le ho chiesto il nome, ha bofonchiato qualcosa di incomprensibile. L’ho vista arrivare, il viso bianco come porcellana, i capelli scarmigliati e un corpo insaccato in un orribile maglione sformato e in jeans troppo grandi di almeno due taglie. Ma lei si è fermata. È stata l’unica a farlo. Me li ricordo tutti quelli che mi sono passati a fianco. Ho guardato i loro occhi, accecati dalla loro stessa solitudine.
Lei, invece, si è fermata subito, mi ha chiesto cosa mi fosse successo e come stavo. Mi ha guardato con occhi grandi e lucenti e dalle labbra screpolate le sono uscite piccole parole modulate. È giovane e forte, mi ha sistemato sul carrettino senza battere ciglio e adesso mi scarrozza su questo improbabile risciò, dentro una città desolata e inquietante. Non posso fare altro che lasciarmi trasportare.
«Siamo arrivati. Ti aiuto.»
«Dove siamo?»
«A casa mia.»
Non ho la minima idea di dove mi abbia portato. Questa specie di casa sta in fondo a una stradina cieca. Ho visto il selciato rilucere di fango e pozzanghere. Abbiamo fatto un bel po’ di strada prima di arrivare qui. Non ho visto anima viva, forse siamo in periferia, in uno di quei quartieri fatti di fabbriche semi abbandonate e case cadenti. Mi ha trascinato in un piccolo edificio addossato al muro che chiude il vicolo. Non ha l’aria di un’abitazione, sembra piuttosto un magazzino.
«Ti metto qui seduto, va bene? Vuoi qualcosa da bere? Hai fame?»
«Sì, grazie, ho molta fame.»
«Tieni, prendi, è pane e formaggio. Non ho altro.»
«Va benissimo. Grazie.»
C’è umido qui dentro. Doveva proprio essere un magazzino prima che diventasse la sua casa. C’è roba accatastata ovunque. Si sente odore di muffa e di sporco. Anche lei puzza, da quanto non si fa un bagno? Avrebbe anche un bel viso. Sbocconcella il formaggio con le dita sudice, lo ingoia senza masticare. Ma come si è ridotta così? Si può vivere in una simile topaia? E come fa ad avere denti così bianchi e belli?
«Vive qui?»
«Sì.»
«E cosa fa?»
«Niente.»
«Non ha un lavoro?»
«No.»
«E come vive?»
«Ti ho detto una bugia, certo che ho un lavoro.»
«E qual è?»
«Sono matta.»
Ha smesso di sbocconcellare il formaggio. E adesso cosa dovrei fare? Per esempio smettere di fissarla. Ha degli occhi splendidi, mi commuove. Devo dirle qualcosa o starmene muto? Se sto zitto, sembra che sia imbarazzato o peggio, ma se dico qualcosa di sbagliato chissà come potrebbe reagire. Com’è difficile vivere, qui non c’è la “x” su fondo rosso da cliccare per terminare il collegamento.
«Sono schizofrenica. È un mestiere che mi impegna tutto il giorno, sai?»
«Immagino di sì. Ha sempre fatto questo… lavoro?»
«A me sembra di sì.»
«Ha fatto anche qualcos’altro?»
«Sono andata a scuola per un po’. Suonavo.»
«Suonava?»
Avevo notato solo lo sporco sulle sue mani. È vero, ha dita lunghe e affusolate, molto aggraziate, una forma nobile.
«Cosa suonava?»
«Il pianoforte. Dicevano che fossi brava. Non so. È laggiù.»
«Cosa?»
«Il pianoforte.»
«Davvero?»
«Lo vuoi vedere?»
«Non vorrei creare fastidi.»
«Ma cosa dici? È bello avere compagnia. Mangia il formaggio, amore, è buono.»
«Dove va?»
«Tolgo questa robaccia così puoi vedere il pianoforte. Tu mangia, amore, non ti preoccupare.»
Sono in balia di questa donna, potrebbe anche uccidermi, eppure non ho paura. Ogni volta che incrocio i suoi occhi, mi assale un’onda di tenerezza. Anche quel suo chiamarmi “amore” non mi turba. Sento la sua purezza.
«Perché è rimasta lì in piedi? Le do fastidio? Ha paura di me?»
«No, cos’hai capito? Qui ti vedo in modo diverso.»
«Giusto… Bello il pianoforte… funziona?»
«Sì, amore, certo.»
Si sistema davanti alla tastiera, se ne sta seduta di traverso, come se avesse bisogno della solidità del legno per sostenere il peso di una testa troppo piena. Cosa devo fare? Non si muove, la testa sorretta dalla mano, il braccio abbandonato sulla tastiera. Ogni tanto si sente un accenno di suono al variare della pressione su un tasto. Saranno tre o quattro minuti che è immobile in quella posizione. C’è uno strano silenzio, come se stesse per accadere qualcosa. Sento solo un leggero ticchettio, forse fuori pioviggina.
Devo parlarle? E cosa posso dirle? Quell’immobilità è innaturale, sembra diventata un manichino, come se il pianoforte e lei fossero un’attrazione al centro di una vetrina. Chissà com’era prima di tutto questo? Magari era bella come una modella e io me ne sto al di qua del vetro senza il coraggio di una parola, di un gesto.
Ha alzato la testa, solleva il braccio con piccoli movimenti. Lo guarda come se lo avesse ritrovato dopo un lungo stordimento. Ha una grazia particolare, posa la mano sulla tastiera, come una farfalla su un fiore. Il suo viso reclinato ha una leggiadria rinascimentale. Mi guarda. I suoi occhi mi turbano. Mi fissa e suona. L’armonia è potente, sconvolgente. Un cristallo di bellezza.
Il suono dilaga, lei preme i tasti, li preme ancora e ancora, con intervalli sempre più brevi, le note si sovrappongono, l’una è appena nell’aria che un’altra la assorbe, si fondono in urla, singulti, melodie, brividi. L’incanto si infrange, il suono è insopportabile! Suona, suona e ancora suona, sempre la stessa nota, martellante, allucinata, basta!
«Ma che fai?»
«Il sol minore.»
«Ma perché lo suoni così?»
«È la mia fuga dagli altri. Ma non da te, amore.»
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